La paura deve essere del virus, non delle altre persone
Intervista di Diego Valeri, responsabile del settore educativo di CTA, al prof. Raffaele Mantegazza, docente di Scienze umane e pedagogiche presso il dipartimento di medicina e chirurgia dell’Università Milano-Bicocca.
In Italia ci sono migliaia di lavoratori e lavoratrici che svolgono mansioni di educatori, che lavorano nelle strutture residenziali. Poniamo il focus in particolare su quelle strutture dove ci sono adolescenti. Da quando è iniziata l’emergenza sanitaria, le figure educative stanno tenendo botta per 24 ore al giorno, ininterrottamente. E’ una faticaccia, ma sono lì e lo sono pur non essendo visti e considerati dalle varie istituzioni di controllo (governo, tribunale, etc). Forse il fatto di essere lì con i ragazzi e le ragazze è quella che possiamo chiamare la dimensione pedagogica? Che ne pensi?
Penso che sia una cosa molto grave il fatto che queste persone non siano considerate, ma anche un elemento di straordinaria resistenza il loro essere presenti. Però rischia di essere una specie di arma a doppio taglio, cioè di proporre una visione missionaristica della professione educativa, a metà tra “fallo per i ragazzi” e “tanto so che ci sei lo stesso”. Occorrerà porre con forza la questione della tutela di queste figure professionali, sapendo che hanno una specificità sia nell’articolazione oraria della loro professione sia per certi versi nel fatto che non è così semplice, quando addirittura impossibile, interrompere un servizio. Questa situazione dovrebbe portare a far emergere il pedagogico invisibile che è presente in tante professioni e che non è mai stato adeguatamente riconosciuto.
Cosa accadrà dopo?
Il 2020 sarà l’anno zero, chi non lo capisce non sta vedendo la realtà. Occorrerà un nuovo rapporto con noi stessi, con la cura di noi e con la morte. Soprattutto vedo due strade: la prima è la diffusione esplosiva dell’idea di rimuovere tutto, di fare come se non fosse successo niente, di tornare a fare le vasche al sabato pomeriggio e a litigare per i parcheggi. La seconda è rifondare il rapporto tra le persone a partire da quel metro di distanza che oggi ci viene imposto, ma che, se ci pensiamo bene, già da Edward Hall era stato riconosciuto come il raggio della sfera di intimità di una persona. Occorrerà una riflessione su come toccare l’altro, su come entrare in questa sfera non più perché abbiamo paura del virus, ma perché, se è vero che l’educazione senza abbracci non esiste (e in questi giorni l’educazione a mio parere è sospesa, come il campionato di calcio), è anche vero che forse non sapevamo realmente abbracciare i nostri allievi.
Sto pensando ad una delle ultime interviste corali di Foucault quando, in mezzo a medici psichiatri, psicologi e altro genere di intellettuali affermò che “la psicologia quando incrocia la pedagogia sparisce”.
E’ chiaro il senso che il filosofo intende dare a questa accezione, in realtà lui pensa al sistema politico normativo e dell’utilizzo che esso fa della “pedagogia”. Qui siamo in una situazione paradossale, un virus, che è parte della natura che condividiamo e alla quale non siamo utili, si incarica, attraverso il vecchio motto- DIVIDI ET IMPERA – di guardarci a distanza, di traverso, di non abbracciarci, baciare, stare in gruppo.
La cosa più angosciante di questa situazione sono ovviamente i malati e i morti, ma fa davvero impressione quel passo di tango che ognuno di noi compie per stare a distanza di un metro dalle altre persone. Se questa procedura, del tutto giusta in emergenza, diventerà una specie di automatismo psicologico anche dopo sarà un problema, perché il tutto si incisterà su un meccanismo di criminalizzazione del diverso che era già fin troppo funzionante.
La paura deve essere del virus, non delle altre persone, e comunque stare a distanza dovrebbe essere inteso come mezzo per NON CONTAGIARE e non per NON ESSERE CONTAGIATI.
Emanuele Severino in un dialogo con Boncinelli mette in relazione la scienza e la filosofia e a critica il concetto di verità. Boncinelli lo segue, ma le strade poi si dividono inesorabilmente. Per Boncinelli la scienza non appare precostituirsi in verità assolute, Severino la pensa allo stesso modo ma pare, in Severino, esservi una mancata precomprensione delle dimensioni di senso da parte degli scienziati, dei significati che gli uomini e le donne danno alla paura. In questa dimensione Severino evoca lo sguardo al cielo dei primi esseri umani e la creazione del supremo come un tentativo di allearsi “alla potenza” per far fronte alle insidie della natura. Alla paura. Cosa ne pensi?
Penso che stiamo capendo che esistono due tipi di paura, una paralizzante, quella che la Cavarero chiama Orrorismo, l’altra evolutiva, che serve per sopravvivere. E’ segno della contraddizione dei nostri tempi il fatto che fino a ieri si sia diffusa e cavalcata la prima, irrazionale e del tutto inutile se non a scopi di potere, e sottovalutata la seconda. “Io non prendo ordini da un virus” ha scritto qualcuno in questi giorni. L’uomo arrogante pretende di avere sconfitto tutte le paure, ma di fronte al diverso (che gli fa paura) diffonde il terrore; così Salvini agisce sulle paure degli elettori, ma poi esce sfrontatamente di casa con la fidanzata. Se impareremo a invertire questo discorso, ovvero a fare in modo che la paura unisca e non divida, avremo sconfitto un nemico quasi peggiore del virus.